Informativa antimafia: chiarito l’ambito del sindacato giurisdizionale

Il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale.
E’ quanto osservato dal Consiglio di Stato, chiamato ad esprimersi sul corretto esercizio del potere prefettizio di adozione dell’informativa antimafia, laddove basato su un quadro meramente indiziario (sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105).
 
Più in particolare, l’appello si incentrava sul rilevato rischio di condizionamento mafioso, che, secondo l’appellante, non poteva essere valutato sulla base del criterio del “più probabile che non”, mutuato dal diritto civile, poiché quest’ultimo non permette di riscontrare alcuna certezza rispetto alle circostanze dedotte.
 
Al riguardo, il Consiglio di Stato, osserva preliminarmente che il campo valutativo del potere prefettizio deve tuttavia arrestarsi di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico di infiltrazione mafiosa, su cui il giudice amministrativo è chiamato a sindacare.
 
Infatti, il giudice, nel valutare il corretto esercizio del potere prefettizio diretto a prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve assumere il ruolo di attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale.
 
Il provvedimento del prefetto non può quindi prescindere dal rispetto di principi come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento di quest’ultimo con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie.
 
Da un lato, ciò comporta che il sindacato del giudice non deve inficiare la funzione di “frontiera avanzata” svolta dall’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato, che impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini.
 
Lo stesso Consiglio di Stato ricorda che la libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza anche smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali.
 
D’altro lato, il sindacato del giudice amministrativo per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, è costruito in modo da evitare che la valutazione del Prefetto divenga una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa (necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto) sconfini nel puro arbitrio.
 
Rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione antimafia, il Consiglio di Stato ricorda che secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo «la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze», conseguendone che «molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi», tuttavia in tal caso «una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità» (rispettivamente §107 e §108, Corte eur. dir. uomo, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia).
 
Sotto questo profilo, il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
 
In questo delicato bilanciamento dei diversi interessi, è da tempo sorta per il giudice amministrativo l’esigenza di una predeterminazione delle condizioni, in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto.
 
A ciò soccorre la “interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniformedi disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione” (cfr. Corte costituzionale, sent. nn. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019).
 
Sotto questo profilo il Consiglio di Stato ha così enucleato le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti “indici” o “spie” dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa che assume forme sempre nuove e mutevoli.
 
Riguardo alle condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale, richiamate nella sentenza del Consiglio di Stato in esame, giova ricordare due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione, adottate a seguito della sentenza de Tommaso della Corte EDU (sentenze n. 24 e n. 25 del 2019, depositate contestualmente il 27 febbraio 2019).
 
Tali sentenze hanno sgombrato il campo da «ogni equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassatività sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di cosiddetta tassatività processuale, concernente il quomodo della prova», chiarendo che solo il primo principio attiene al rispetto del principio di legalità; di contro, il secondo riguarda il modo in cui in giudizio si può procedere all’accertamento probatorio degli elementi della fattispecie e coinvolge il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il diritto a un “giusto processo” (art. 111 Cost. e art. 6 CEDU).
 
Ebbene, nella sentenza in esame il Consiglio di Stato ricorda che la giurisprudenza ha individuato:
 
·        sul piano della tassatività sostanziale, due forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell’impresa ad influenze mafiose, riscontrabili quando un operatore economico si lasci condizionare dalla minaccia mafiosa e si lasci imporre le condizioni da questa volute oppure quando questi decida di scendere consapevolmente a patti con la mafia per trarne vantaggio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, sent. 3 maggio 2016, n. 1743);
·        sul piano della tassatività processuale, lo standard probatorio sotteso alla regola del “più probabile che non”, soggetta alla verifica della c.d. “probabilità cruciale”, la quale, nell’apprezzamento degli elementi indiziari posti a base del provvedimento prefettizio, impone di ritenere più probabile l’ipotesi dell’infiltrazione mafiosa rispetto a “tutte le altre messe insieme”, non richiedendosi infatti, in questa materia, l’accertamento di una responsabilità che superi qualsivoglia ragionevole dubbio, tipico delle istanze penali, né potendo quindi traslarsi ad essa, impropriamente, le categorie tipiche del diritto e del processo penale, che ne frustrerebbero irrimediabilmente la funzione preventiva.
 
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” (contestata dall’appellante) è il vincolo per l’interprete di sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons. Stato, sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).
 
Le condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale, così enucleate, consentono una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della normativa in materia.
 
Ciò premesso, e venendo, nel concreto, il Consiglio di Stato ha ritenuto pienamente legittima, e immune da censura, proprio in virtù dei principi di diritto sopra ribaditi, la valutazione del primo giudice, confermando la legittimità della informazione antimafia.